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martedì 26 novembre 2013

Recensione a: Stefano Cazzato “Di cosa parliamo quando parliamo di filosofia. Il punto di vista di cinquanta pensatori”, Giuliano Ladolfi Editore, giugno 2013.


di Viviana Meschesi
Che cos’è la filosofia? Di cosa parliamo quando parliamo di filosofia? Queste le domande su cui Stefano Cazzato in questo libro costruisce il movimento  che egli  definisce “dall’ontologia all’antologia”,  tentativo  realizzato sulle e nelle parole di cinquanta pensatori , le quali tradiscono quell’interrogarsi della filosofia su se stessa . Se, come ci ricorda Cazzato, Deleuze e Guattari nel 1991 pubblicavano Che cos’è la filosofia? , inaugurando un dibattito sulla presunta fine della filosofia, è altrettanto vero che questa domanda si è sempre posta nel fare filosofia, e questa breve antologia  si pone l’obiettivo di indicare i luoghi di tale questione. L’obiettivo esplicito è quello di fornire ad un pubblico variegato gli strumenti per avvicinarsi alla valutazione “meta filosofica”  da parte di una pluralità di punti di vista, offerta da quei filosofi che con la loro riflessione hanno arricchito il Novecento e la contemporaneità. I criteri di selezione dei testi scelti da Cazzato, ovvero “la leggibilità e la brevità” offrono inoltre anche al lettore non specialista la possibilità di proseguire in autonomia l’approfondimento delle tematiche trattate, laddove l’orientamento garantito dall’autore attraverso una breve biografia e da un altrettanto densa analisi testuale per ogni autore trattato è davvero solo un trampolino di lancio. Al centro del presente lavoro, come ribadisce l’autore nell’Introduzione  non vi è “la ricerca di un canone o di un fine della filosofia, ma la presentazione di uno spettro abbastanza vario di operazioni e di ipotesi filosofiche”. La domanda implicita a cui Cazzato sembra voler tentare di rispondere è quella che ha  a che fare con l’identità della filosofia e che si pone come nodo problematico nella prassi didattica contemporanea, in ciò amplificando, nella sua declinazione eminentemente funzionale e pratica, una delle impasse della filosofia. All’assenza di una risposta univoca fa da controcanto non un indebolimento del pensiero ma al contrario la sua più grande potenzialità, quella cioè di sapersi trasformare in costellazione dialogica, fatta di confronti ed aperture. Questo lavoro si candida ad essere un ottimo strumento per il docente che voglia accompagnare lo studente nel Novecento, ma anche per coloro i quali, specialisti e non, vogliano cogliere degli spunti da approfondire. Questo perché questo lavoro sottolinea la narrabilità della filosofia che si declina “antologicamente”, per così dire, in un ordine alfabetico che si oppone ad ogni possibile forma di gerarchizzazione e che apra al lettore la dimensione della longevità della filosofia. Autori come Adorno, Arendt, Benjamin, Husserl, Heidegger, Popper, Ricoeur, Russel, Carnap ma anche Berlin, Garaudy, Levinas, Rosenzweig e Zambrano , solo per citarne alcuni, contribuiscono a colorare questo caleidoscopio filosofico in cui il filo conduttore rimane quella che è la base più profonda dell’interrogazione filosofica,  attraverso un movimento continuamente trasgressivo dei confini posti dalla disciplina stessa.

mercoledì 12 settembre 2012

in sintesi - conversazione con Fernando Sinaga

durata della video intervista 25 min e 50 sec

Intervista con Fernando Sinaga, artista e titolare della Cattedra di Scultura presso la Facoltà di Belle Arti di Salamanca. I temi trattati riguardano la didattica dell'arte, il soggetto artistico e il fenomeno della creazione, la relazione fra creazione e spazio artistico - Facoltà di Belle Arti, Salamanca 2012

 intervista, regia e produzione di Luca Zanchi
riprese di Valentin Eza e Sergio Dominguez
postproduzione di Sergio Dominguez, Luca Zanchi e Valentin Eza

si ringraziano
Angel Lozano e Medialab Usal

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Commento all'intervista di Fernando Sinaga
"UNA SINTESI ETERODOSSA"

di Viviana Meschesi


L'intervista a Fernando Sinaga ci porta nel cuore del suo lavoro e della sua sensibilità. Diversi punti devono attrarre la nostra attenzione. Sinaga si premura da subito di ribadire una fenomenologia del processo creativo legato a ciò che egli chiama uno "stare all'erta", nel tentativo di connessione fra un interno ed il contesto.Egli prosegue sostenendo che,  a suo avviso, avvicinarsi all'arte significa fare "esperienza" dell'avvicinamento all'artista e al suo temperamento."L'artista ha un viso, un corpo, un atteggiamento, anche un abbigliamento " che va osservato, studiato, esperito in prima persona possibilmente, contestualizzandolo alla sua estetica. Interessante l'attenzione che Sinaga pone sulla biografia dell'artista dunque, su di un certo modo di cogliere anche elementi psicanalitici, in maniera analogica fluendo anche nello "spazio " creativo capace in alcuni casi ( Sinaga pensa a Brancusi) di rompere i limiti disciplinari prediligendo un "sistema relazionale" attorno allo spazio. A nostro avviso il punto nevralgico dell'intervista, o quanto meno ciò che ha attirato fortemente la nostra attenzione per le ragioni che esporremo a breve, è proprio l'idea di un discorso "aperto" del processo creativo, che mette in atto un vero e proprio paradigma indiziario, suggerendo una  pedagogia artistica incentrata sulla biografia dell'artista, allo stesso tempo mantenendo intatta l'eccedenza dell'atto creativo stesso. Sinaga ribadisce la sua posizione riguardo al processo creativo da lui interpretato e vissuto come "modello integratore" che riesca ad agganciare l'elemento eterodosso, altrimenti non comprensibile da una linea ortodossa ed analitica ( egli lo definisce "modello intellettuale").
Quanto detto ci pone delle questioni irrinunciabili, poichè a nostro avviso egli incontra e riflette-nel territorio dell'arte- su degli aspetti che anche la riflessione filosofica ha contribuito e contribuisce ad allargare e riguarda il modello di conoscenza applicato al processo creativo.

La questione della considerazione della insufficienza della ragione epistemica, analitica, a cogliere quell'eccedenza che comunque pertiene al soggetto stesso, ha portato ad una rivalutazione del sapere analogico, che si basa su un'idea di inconsistenza della pretesa di cogliere il tutto in maniera assoluta e si manifesta in frammenti, metafore, ombre, "indizi" per dire in una parola.
I tentativi che, a nostro avviso, sono stati senz'altro più fecondi sono quelli che, lungi da derive irrazionaliste, hanno propiziato una correlazione tra questi due modelli, questi saperi- quello epistemico e quello analogico.
Logos e mythos, concetto e metafora, sistema e frammento, che il pensiero filosofico ha formalizzato quasi esclusivamente nei termini di un aut aut, ha a nostro avviso la responsabilità della sua stessa depotenzializzazione e naufragio. Proprio la formidabile strumentalità della logica classica, condensata dai Greci nel principio di non contraddizione e di terzo escluso, ha subìto impietosi attacchi da parte di una filosofia consapevole dell'eccedenza, curiosa della Differenza. L'idea di una crisi della logica e dunque della razionalità classica, "consumata" da un annoso dibattito- eppur ancora così presente al senso comune- ha, a nostro avviso, il limite di dichiararsi "progetto unico" dell'umano, per di più fallito irrimediabilmente. Riflettere invece su questo tema come ad una storia fatta di continue emersioni ed immersioni di limiti ed alternative che non solo nella "modernità"- come ci avverte W. Benjamin nel suo PassagenWerk- ha posto dei limiti invalicabili al pensiero, potrebbe portarci all'accettazione dei limiti sì, ma anche delle potenzialità di un modello, che non oggi, ma da sempre, si dibatte e si affianca (ahimè molto spesso soffocandolo) ad un altro modello, in realtà precedente: quello analogico. Il mito fondativo viene meno, la ricerca dell'originario diviene una sfida.
Laddove l'episteme mostra i suoi limiti, poichè ammette strutture irrinunciabili al sapere ontico, laddove osserva un pensiero che eccede dal pensare, perchè si trova faccia a faccia- come ci dice Rosenzweig- con un singolo che si rifiuta di sparire nella totalità, ecco mettersi in moto un movimento di trasgressione ed eccedenza, che però continuamente deve trasformarsi di nuovo in riflessione, salvando l'episteme stessa.
Un difficile cammino "aperto", non chiuso, della plurivocità, pur mantenendo quell'esigenza di rigore che è propria di ogni interrogare che voglia essere seriamente filosofico, è stato battuto da diversi pensatori, quali Rosenzweig, Benjamin, Levinas, per citare quelli di cui ci siamo personalmente occupati.

Con queste premesse, che divengono vera e propria "lente ermeneutica", affrontiamo allora il "processo" creativo, che da sempre si serve della correlazione logica-analogia.
E Sinaga dunque, quando parla di "sintesi eterodossa", di pratica artistica in cui la Differenza ha un "luogo" privilegiato, di valorizzazione della discontinuità e della potenzialità dell'eterodossia, si pone, a nostro avviso, su una linea convergente a quella che guida le nostre riflessioni e garantisce ulteriori spunti ed allargamenti di prospettiva per quel pensiero, filosofico, artistico, umano che non voglia farsi "ingabbiare" nell'illusione della fine dell'arte e della filosofia.

 

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 TESTO DELL'INTERVISTA

il fenomeno della creazione e il soggetto artistico
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Nelle mie lezioni mi occupo di spiegare come il fenomeno della creazione sia relazionato al contesto esterno, ma anche con un “mantenersi all’erta”. Per cui l’attività creativa non consisterebbe semplicemente in un training, in un apprendistato,  o in una memorizzazione di processi conosciuti, ma piuttosto nello stare all’erta, perché la creazione è una connessione fra stato interiore e il contesto, le circostanze esterne e il mondo che ci circonda. In questo senso la creatività ha molto a che vedere con il “religare”, unire, e riconoscere. E il riconoscimento è qualcosa che esige una disposizione interiore.
Queste lavagne cercano di mostrare che si vive in un contesto culturale nel quale lo studente deve fare attenzione ai cambi, alle trasformazioni, e alle innovazioni introdotte da altri artisti. A volte sono molti gli studenti che non conoscono il viso degli artisti, pur conoscendone le opere. Non conoscono il viso degli artisti nella loro gioventù, maturità, vecchiaia, e ne ignorano le vite. Con questo non voglio dire che conoscendo la biografia di un artista si possa arrivare a conoscerne l’opera, perché questo probabilmente è falso, ma d’altro canto questo non va nemmeno a nuocere la comprensione dell’opera.
Però senz’altro è importante comprendere che l’artista ha un viso, un corpo, un atteggiamento, ha anche un abbigliamento. Gli artisti si vestono in un certo modo, per alcuni il vestiario è importante, come analizzo in diverse lezioni. Il vestiario, il modo di pettinarsi, la struttura del viso, se hanno la barba o no, se portano un cappello o meno, se si vestono di nero o di bianco, di giallo… Tutte queste cose fanno parte del soggetto artistico. Alcune volte bisogna conoscere un artista direttamente. Una delle mie domande agli studenti è “Quanti artisti avete conosciuto nel corso della vostra vita?”  A volte ci sono studenti di Belle Arti che non hanno mai conosciuto direttamente un artista, un artista riconosciuto socialmente come artista, non semplicemente qualcuno che si definisca tale (di questi ce ne sono molti). Pertanto chi si dedica allo studio dell’arte deve avvicinarsi alla figura dell’artista, deve cercare di conoscerlo, parlargli, metterlo in discussione, interrogarlo, conoscere il temperamento artistico. E questo contribuisce ad avvicinarti all’arte, senza dubbio.
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vite di artisti
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In ciascuna vita vi è qualcosa di assolutamente singolare, vi è sempre una mescolanza di fattori biografici e artistici - ciò che è artistico sembra biografico, e viceversa. E infine vi è una serie di circostanze che cambiano in tutto e per tutto la vita. Questo lo diceva Louis Kahn, riguardo la sua stessa vita, considerando il suo incontro con l’architettura come qualcosa di accidentale, e la casualità come un qualcosa di assolutamente determinante in un dato momento. Avere questo concetto chiaro è molto importante per comprendere la mente dell’artista. E questo si può vedere chiaramente nel viso di Louis Kahn, un uomo con cicatrici, quelle bruciature che riportò nel viso dovute a un incidente che ebbe da bambino, che fecero sì che avesse un viso singolare. Cosa che non gli impedì di trasformarsi in un seduttore, e un architetto che infine trasferì le cicatrici che aveva sul viso nel carattere tettonico della sua architettura in calcestruzzo.
Bene, queste particolarità, aspetti singolari che s’incontrano nelle vite di artisti, e che a volte assumono una dimensione letteraria, mitica, mi sembrano sommamente avvincenti, sono come storie, storielle, che aggiungono al valore creativo una vitalità specifica che si trova nella vita e che quindi si trova nell’arte. Qualcosa rappresentano, qualcosa indicano senz’altro,  sono come indicatori, ma non possiamo arrivare realmente al riconoscimento di cosa sia ciò che ha causato una creatività così esuberante quale la incontriamo in alcuni autori. E a volte i fattori educativi, familiari, o contestuali sono piuttosto insufficienti per comprendere la leggenda del genio, questa sorta di indagine nella mente creativa in cui quasi sempre ti scontri con una certa impossibilità di comprensione. La psicanalisi, e questo non lo dico io, ma autori come Carl Jung ad esempio, si rivela chiaramente limitata al momento di comprendere l’arte. Al momento di analizzare la vita degli artisti attraverso l’analisi del soggetto in base ai dati che ci fornisce la storia personale dell’artista, ti rendi conto che c’è qualcosa che non arriviamo mai a scoprire. Possiamo sapere chi è suo padre, chi è sua madre, se hanno avuto una storia terribile, o che rientra piuttosto in un ambito di normalità, se hanno avuto delusioni amorose, problemi economici, malattie, però malgrado la conoscenza dei dati biografici di ciascuno degli autori, vediamo sempre  che qualcosa ci sfugge. Pertanto tendo a pensare, alla stregua di Jung, che vi sia qualcosa nell’arte che non è spiegabile nella comprensione psicanalitica dell’arte.
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Brancusi e lo spazio creativo
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L’eredità di Brancusi, che si fece cittadino francese prima di morire, e la generosa donazione che egli fece allo stato francese della sua opera, non fu solo una questione di generosità riguardo la sua eredità artistica ma anche l’intimo desiderio, io penso, di Brancusi di tentare di preservare un’idea. Non solamente un’opera, bensì un sistema creativo. Un modello di creatività.
Partendo dal fatto che l’atelier Brancusi di Parigi aveva qualcosa che per Brancusi era fondamentale, e che il tentativo di trovare un luogo dove sviluppare la creazione in accordo con la sua individualità si estese nel corso della sua intera vita, è quest’idea forse del laboratorio creativo, dello spazio creativo, del luogo di creazione che attua e catalizza le energie individuali in modo singolare.
Penso, come suggeriscono le più di mille fotografie che esistono del processo creativo di Brancusi, la collocazione delle opere, il sistema di relazione che Brancusi stabiliva fra di esse, la metamorfosi delle proprie opere, le fasi di transizione, le sculture che si muovevano e cambiavano di aspetto e si relazionavano in modo diverso fra di loro, che Brancusi in questo luogo abbia trovato una metodologia propria, e forse un canale per le sue idee, e una fonte d’ispirazione. Seppe trovare qualcosa dentro se stesso e il proprio modo di agire che retro-alimentava il suo lavoro.  Inoltre l’atelier Brancusi non era solo un modello di atelier, ma uno modello di vita. Brancusi viveva lì, dormiva lì, cucinava lì, riceveva i suoi amici, era un luogo d’incontro per tutte le sue amicizie e le sue relazioni artistiche. Per questo penso che questo spazio abbia assunto nel tempo una  densità vitale e intellettuale sempre più intensa. Penso che Brancusi lo abbia percepito come un catalizzatore di idee e parte imprescindibile del suo lavoro. Per questo forse volle mantenere questa unità. Per quanto egli si separasse dall’opera, la esponesse e vendesse, forse questo senso interno di unità era fondamentale. Questo portò Brancusi a una visione della sua vita, della sua opera, e del suo lavoro forse di carattere delirante, nel senso che arrivò a confondere la sua opera, il suo immaginario, il lavoro con i diversi materiali, con un sistema relazionale attorno allo spazio, confondendo lo spazio dell’architettura con lo spazio dell’arredamento e con lo spazio degli oggetti scultorei. E questo è estremamente interessante perché questo delirio interiore, (questo immaginario che fuse i diversi ambiti: lo spazio dell’utilità, lo spazio abitabile, con lo spazio percettivo della scultura), costruì una tipologia di opere nelle quali questi limiti fra architettura, disegno e scultura si mescolavano. E questo si evince dall’atelier Brancusi. Separato da questo contesto si oggettualizza, ed è ciò che accade nella esposizione del Guggenheim.
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unificare nella eterodossia
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Nello sviluppo della fenomenologia del sistema creativo ribadiamo costantemente come il sistema creativo sia un modello integratore. Non è solo un modello intellettuale, non solamente un modello percettivo, esso è anche un modello intuitivo, e forse il modello più interessante al fine di integrare l’irrazionale, ciò che non sappiamo, ciò che non conosciamo, ciò che non comprendiamo, ciò che appartiene al mondo delle pulsioni, delle ascendenze interne all’individuo, alla nostra natura umana, e quelle cose che non riusciamo a comprendere ma che fanno parte di noi. In questo senso il modello creativo, e il lavoro artistico in generale, a mio parere come modello di conoscenza riunisce molte più cose del modello intellettuale. Il modello intellettuale e analitico a volte divide più che unificare esperienze, concetti, sentimenti, ed emozioni. Con il tempo lavorando con il linguaggio artistico, il che è sempre una opzione personale che dipende dalla propria esperienza e traiettoria personale, essendo io un artista che proviene da estrazioni e apprendistati molto diversi che hanno a che vedere con il mondo della scultura della pittura, con l’influenza dell’arte pubblica e in una parte della mia vita del mondo tedesco e dell’arte tedesca, dell’arte americana e senz’altro dell’apprendistato del minimalismo - pertanto ci sono molte fonti, molte estrazioni che operano in modo molto diverso - la mia scelta non è quella di separare, ma piuttosto di cercare di trovare gli elementi che collegano fra di loro diverse fonti, diverse culture e diversi modi di intendere l’arte. E anche diverse discipline - per questo non sono un ortodosso dal punto di vista della scultura, così come non prendo la pittura in modo ortodosso: la utilizzo come una parte della mia ricerca che si confà allo sviluppo di un linguaggio più divergente, più complesso. E’ una scelta, quella di adottare un linguaggio più eterodosso o più ortodosso, che dipende dal proprio carattere, dal proprio atteggiamento più o meno fondamentalista. Io penso che appunto uno degli aspetti più interessanti dell’arte sia questa caratteristica del linguaggio aperto, di carattere sperimentale, che è propria del territorio dell’arte. Questo comporta anche dei rischi - si appartiene a una tipologia di artista molto dispersa, meno stilistica, più difficile da seguire formalmente, e più difficile da localizzare e identificare mediaticamente. E anche commercialmente questo a volte è piuttosto nefasto, perché a volte quello che tranquillizza molto il mondo commerciale è la ripetizione, la monotonia, lo stile, questo aspetto di sicurezza che dà fare sempre la stessa cosa - quando io personalmente trovo questo noioso.
Non ho mai avuto quest’handicap che hanno molti artisti come divisione di campo. Se sei professore non puoi essere artista, se sei artista senti che dedicando tempo all’insegnamento stai perdendo il tuo  tempo, la tua creatività. Magari il narcisismo artistico ti obbliga costantemente a dedicarti a te stesso, ai tuoi pensieri, alle tue idee, e lavorare con gli altri ti ritarda rispetto alle tue scelte personali. Bene, io non ho mai avuto questa divisione. Probabilmente è una questione di carattere, temperamento. Io ho sempre cercato di unificare più che separare, e questo è molto importante. Unire a volte ciò che è impossibile unire, e questo in scultura è una delle chiavi fondamentali, quando hai a che fare con due materiali c’è sempre un punto… In scultura come in architettura, una delle chiavi fondamentali dell’architettura è il punto d’incontro di due materiali, e in scultura è la stessa cosa: come unire un vetro con il legno? Qual è il punto di unione più appropriato? Come passare direttamente da un marmo bianco a un marmo nero? Come passare da un cemento a un pezzo di argilla cotta o non cotta? Come passare da una materia morbida a una materia dura? Questo è possibile. Il nostro corpo è un esempio in qualche modo di questo - facciamo parte di una struttura che è in parte dura, in parte morbida e in parte acquosa. Perciò possiamo formare e configurare un tutto con materie, materiali e concetti molto diversi. Trovare un linguaggio che sia capace di unificare cose molto divergenti e molto differenti è una parte dell’arte che mi pare assolutamente interessante e appassionante.
Sì, perché forse l’idea che abbiamo della coerenza è falsa. La coerenza senza differenza è un tipo di coerenza che a qualcuno potrà sembrare interessante, però allo stesso tempo una coerenza complessa in cui le cose sono divergenti, differenti, contraddittorie, è una coerenza estremamente attraente. E forse questa parte che presenta contrapposizioni, diciamo mondi e campi differenti, opposti, ma che tuttavia sono parte di una totalità, è parte di una comprensione della realtà.
Questa forse fu la lotta della psicanalisi, fin da quando Freud scrisse “L’Interpretazione dei Sogni”, al principio del XX secolo - ciò che probabilmente cercava di fare era unire ciò che era in altra epoca impossibile unire.
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in sintesi
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Io forse ora mi trovo in una fase un po’ retroattiva, in cui sto elaborando un libro, un catalogo del mio lavoro che raccoglie quasi 25 anni di lavori artistici, e perciò probabilmente anche questa dinamica editoriale mi obbliga a ripensare, a trovare le relazioni, le analogie, i perché si siano prodotte le cose che abbiamo prodotto, e forse in questo senso sono in una fase in cui penso da dietro in avanti e da davanti indietro. E cerco di vedere i nessi, quali cose siano scomparse e quali permangano. E curiosamente trovo cose che continuano ad essere non direi intatte, ma quasi intatte in sé, che poi al momento di rimetterti in contatto con esse come in una conversazione che hai tralasciato di concludere, ti fanno riconciliare con momenti che pensavi fossero scomparsi e invece stanno lì. E poi in questo senso, nell’attraversare lo spazio e il tempo, mi trovo a non avere troppi problemi a riconnettere, e riconsiderare, e tornare a vincolarmi con situazioni che consideravo perdute. …è questo effetto del Fort/Da, della recuperazione dell’oggetto perduto…
Forse questa è una fase nostalgica, non saprei, connessa alla memoria, che a volte alimenta nuove immagini con le quali sto lavorando.



lunedì 6 agosto 2012

Considerazioni circa “L’arte e la sua ombra” di Mario Perniola

Luca Zanchi, Salamanca 2012

Neti, neti[1] - un’estetica apofatica (Si comprehendisti, no est Deus...Arte) [2] 

L’intero testo de “L’arte e la sua ombra”[3] si articola all’interno di un paradigma, o meglio, di una “strategia” apofatica.
Con lucidità vengono tracciate posizioni antitetiche, antinomie inquadrate nelle rispettive limitazioni, come il confinamento dell’arte negli stretti confini dell’opera (feticismo) in antitesi con la dissoluzione dell’arte nell’immediatezza della comunicazione; il maschile in opposizione al femminile; pop-art contro situazionismo, e così via... A questo punto - senza collocarsi in relazione dialettica (ovvero senza schierarsi a favore di un’antinomia o di un’altra - “neti neti” - ma senza nemmeno elaborare una sintesi pacificante), Perniola indica una “terza via” traslando il discorso a un territorio “altro”, pertinente all’ambito della “differenza”.
Questo spazio “altro” viene arredato da Perniola con metafore estremamente plastiche, tanto allusive quanto vaghe e sfuggenti: In alternativa allo scontro dualista fra feticismo mercificato e comunicazione di massa, diurna, immateriale e trasparente, viene proposto il concetto di “ombra”, margine oscuro ed enigmatico che si sottrae allo sguardo indagatore che vorrebbe esplicitare l’arte fino a farne una parafrasi. Proprio come l’ombra, che dinamicamente si sposta collocandosi all’opposto del raggio di luce che investe l’oggetto, anche l’arte nasconderebbe nell’oscurità il suo “ubi consistam”, il proprio nucleo costitutivo.

In alternativa all’antinomia di maschile e femminile viene proposto un “neutro” che non è sintesi, bensì infinita declinabilità di alternative di genere.
Fra il considerare l’arte come oggetto di consumo, e il risolvere l’arte nella comunicazione, si propone l’idea di “resto” come vestigia, baluardo della differenza, come resistenza irriducibile.

E infine dinnanzi al lutto per la morte della trascendenza, e al conseguente nichilismo culturale, fra due alternative - la deriva malinconica, oppure il reinvestimento in un nuovo oggetto (ovvero in questo caso la rifondazione del trascendente), viene indicata una terza possibilità nell’“incorporazione criptica”.
Associare questo testo di Perniola, così critico rispetto a qualunque spiritualismo sublimato, alla teologia negativa è indubbiamente provocatorio, eppure lo stesso Foucault, tracciando la genealogia di un “Pensiero del Fuori”[4] traccia una linea che dalla teologia negativa dello Pseudo Dionigi, passando per la sconsacrazione di De Sade, l’epifanizzazione scenica di Artaud, giunge a Batalle, Klossowski, Blanchot.

E dopotutto lo stesso Perniola nel capitolo “L’arte e il resto” chiama in causa proprio la religione quando attribuisce a Debord  un “moralismo anti-estetico e iconoclastico, le cui origini risalgono alla Riforma”[5], affermando che “In Debord resterebbe vivo e operante l’orientamento antiestetico e antimondano della rivoluzione religiosa del XVI secolo”…(aggiungerà più avanti che Debord è totalmente concentrato sul conflitto presente, nella totale assenza di un’utopia futura).
Come scrive Miriam Mirolla a proposito del Situazionismo, “In un rapporto del 1961, approvato all’unanimità alla V Conferenza dell’Internazionale Situazionista, si sancisce che: ‘Nel mondo capitalista la vita è organizzata in modo spettacolare… Si tratta di non elaborare lo spettacolo del rifiuto, ma rifiutare lo spettacolo […] dunque gli elementi distruttivi di questo spettacolo non devono più essere opere d’arte. Una volta per tutte, non vi è situazionismo, né opere d’arte situazioniste’. Da questo momento in poi, il Situazionismo offrirà al mondo soltanto la sua programmatica sparizione anti-spettacolare [6]. 
Non dovrebbe quindi stupire che Perniola, erede del Situazionismo e reduce del suo naufragio nel silenzio, assistendo al trionfo spettacolare dell’immagine mercificata dell’incipiente era post-media[7], debba divincolarsi fra diverse esigenze: muovere una doverosa critica alla mercificazione feticista e capitalista della società dello spettacolo, e al contempo riformulare alcune posizioni situazioniste evitando di cadere nello stesso moralismo iconoclasta. Sottrarsi agli effetti nichilisti e malinconici della “morte di Dio”, senza tuttavia proclamarne una risurrezione.
Preso fra queste opposte esigenze l’autore di “L’arte e la sua ombra” cerca uno spazio eterotopico[8] in metafore e categorie (la cripta, il neutro, l’ombra, etc.) che gli consentano un recupero se non proprio della trascendenza, quantomeno di un margine di trascendentalità, e di criticare la diarrea iconica post-mediatica, senza tuttavia giungere a un aniconismo radicale - consentendo la sopravvivenza di un resto, un’eccedenza enigmatica, in cui custodire il nucleo vitale dell’arte.

In questo senso, pur non essendovi religiosità esplicita in Perniola, il paradigma apofatico sembra in lui traslato e applicato a salvaguardia non più del Divino o dell’Assoluto, bensì di un nocciolo vitale, ineffabile, irriducibilmente trasgressivo, che sarebbe pietra fondante dell’arte e della filosofia, proprio come le immense cattedrali gotiche, fatte di vetro e di luce, poggiano su oscure cripte che custodiscono antichi tesori reliquari…
Questa scintilla di vitalità sarebbe il “tesoro” che si vorrebbe mettere al sicuro tanto dallo sguardo parafrasante (profanatore!) della comunicazione di massa, quanto dalla mano concupiscente del feticista.
Come le più sacre reliquie, morte eppure oscuramente attive nelle profondità criptiche di una cultura che è secolarizzata solo in superficie, per Perniola arte e filosofia continuano ad essere vive nel fenomeno dell’incorporazione, e il filosofo-artista ne sarebbe il guardiano psicopompo.

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La metafora dell’incorporazione criptica[9]

In diversi momenti del testo Perniola ribadisce l’intersezione di arte e filosofia nell’occuparsi dell’eccedenza, del resto, e della differenza. Tanto l’artista quanto il filosofo risponderebbero a un imperativo di eccezionalità,  apportando un contributo trasgressivo ai sistemi in cui operano.
Ciò per l’autore equivale a predicare la propria libertà di essere artista, al pari di filosofo: di fatto, superata la fase negativa, del ‘neti neti’, al momento di suggerire la sua proposta alternativa Perniola non pronuncia una definizione positiva, e non introduce chiari parametri analitici, ma al contrario elabora metafore che hanno molto di artistico (sono iconiche, visuali, poetiche, e ampliamente allusive). Metafore come l’ombra e la cripta, più che chiarificare, ordinare, illuminare, sono categorie fatte per nascondere, confondere, velare.
Il concetto medesimo di critica (e la teoria dell’arte, e l’estetica, non possono prescindere da un contributo critico) al contrario imporrebbe un’operazione di krinein, e quindi di distinzione, che richiederebbe invece un attento procedere “diurno”. In questo senso cripta e critica sono inconciliabili e di fatto potremmo attribuire a Perniola un certo grado di astinenza critica - fatta eccezione per la spietata valutazione delle critica altrui, di movimenti artistici e approcci filosofici pregressi, al momento di affacciarsi direttamente sul fenomeno artistico, piuttosto che procedere in senso critico, allora vengono invocate l’ombra e l’oscurità, imponendo una metafora topica che colloca il fenomeno artistico in una perpetua epochè strutturale.

La giustificazione per il ricorso alla metafora della cripta giunge a Perniola dalla categoria psicanalitica dell’incorporazione criptica[10], delineata originariamente da Freud, sviluppata da Abraham e Torok, e traslata in campo estetico da Derrida.
Partendo dall’interpretazione dell’attuale crisi del logos, con i suoi sintomi di cinismo e nichilismo, la cultura occidentale contemporanea verrebbe trattata come un corpus unico, attuando una analogia (di per sé sempre discutibile) fra sistema psichico individuale, e macro-sistema culturale collettivo. A questo punto si adotterebbero metafore nate in un contesto clinico e psico-patologico, per applicarle a un contesto sociale la cui presunta crisi è interpretata come malattia.

Nel caso specifico, la deriva dei grandi sistemi e la perdita della trascendenza, associabili alla metafora nietzschiana della morte di Dio, verrebbero trattati alla stregua dei sintomi di un lutto irrisolto.
Perniola suggerisce la dinamica dell’incorporazione criptica come valida alternativa (terza via “differente”) rispetto all’introiezione e alla malinconia: grazie ad essa un tesoro che brilla nell’oscurità sopravvivrebbe in gran segreto, installandosi in modo “magico e istantaneo” nel sistema continuando a operare nell’ombra.
Sarebbe bene sottolineare che nessun testo psicologico clinico parlerebbe in toni tanto entusiasti e romantici della dinamica dell’incorporazione criptica additandola come forma di elaborazione del lutto preferibile alla malinconia, o all’introiezione e al reinvestimento oggettuale.
L’incorporazione costituisce infatti un processo di scissione di difficile cura, di origine arcaica e quindi particolarmente resistente all’intervento terapeutico. Diversamente dall’introiezione (che presuppone una relazione fra un soggetto e un oggetto separati, in cui il soggetto assume in sé una  “parte” della rappresentazione dell’oggetto), l’incorporazione agisce prima e al di fuori del processo di simbolizzazione (in questo senso è arcaica, e per dirla come Perniola stesso, riprendendo Lacan, è “idiota” in quanto non mediata dall’elemento simbolico), e assume in sé l’oggetto nella sua totalità, acriticamente (ovvero senza operare un discernimento critico)[11].

Infine l’incorporazione rappresenta una forma di “incistamento” patologico così refrattario al cambiamento, da estendersi oltre il soggetto singolo fino a ripercuotersi a livello famigliare sulle generazioni successive, arrivando a costituire una delle principali vie di trasmissione transgenerazionale della sofferenza psichica[12].

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I vampiri dell’arte

In questa trasposizione linguistica operata da Perniola sulla scia di Derrida è legittimo accettare un margine di modificazione semantica dei termini, per cui ciò che in contesto psicanalitico pertiene a una dimensione inequivocabilmente patologica, può essere in contesto estetico connotato positivamente, e accantonando l’ortodossia filologica possiamo valutare la proposta di Perniola immaginandone le possibili implicazioni.
Il concetto medesimo di una possibile attuabilità dell’epochè è di per sé radicalmente discutibile[13], applicato poi al sistema artistico, l’atto di collocare l’arte nell’ombra dell’indicibile fornisce ottime premesse per restaurare, volenti o nolenti, il mito di un “senso artistico”, attitudine innata nel critico quanto nell’artista a captare o esprimere il sublime, divenendo custodi auto-proclamati di un’idea di arte mai realmente dichiarata e discussa.

Inevitabilmente tanto il sistema dell’arte quanto quello artistico, operano scelte drastiche in termini di esclusione o integrazione, concedendo o negando sostegno economico, accademico, mediatico, decretando notorietà oppure invisibilità e oblio, elogiando e premiando o stroncando. Il fatto che simili operazioni non abbiano un orizzonte critico di riferimento  per operare la propria cernita non può che esporre l’arte all’assolutismo arbitrario e volubile dei singoli, e all’opportunismo speculativo del mercato.
Se da una parte possiamo apprezzare il nobile silenzio del mistico, che tace se non per decostruire apofaticamente le certezze altrui, dall’altra fintanto che si decide di rimanere nel mondo secolare, e fintanto che si continuano a scrivere libri rivestendo cariche accademiche e occupando uno spazio nella cultura, allora una tensione analitica mi sembra indispensabile e doverosa.
La strategia di porre l’arte (e la filosofia) in uno spazio interno al sistema, e tuttavia irriducibilmente  “altro”, capace di coesistere senza integrarsi, risponde allo scarso interesse di Perniola per una dialettica conciliatoria del conflitto, e di conseguenza l’installazione di un rifugio criptico nelle profondità oscure del sistema culturale sarebbe un buon modo per ribadire, mutatis mutandis, l’autonomia autoreferenziale dell’arte (autonomia e autarchia sarebbero appunto prerogative dell’unità criptica frutto del processo psicologico di incorporazione).
Eppure, malgrado la puntigliosità di tutte le osservazioni finora mosse, se ci risolviamo ad accordare a Perniola lo status di artista (o di mistico…), non possiamo che provare simpatia per il suo desiderio “carbonaro”[14] di una “resistenza artistica” che in un’epoca quasi “post-atomica” (o semplicemente post-media) sopravviva rifiutando i compromessi dell’integrazione, aspettando, tramando nell’ombra, custodita da scaltri criptofori, guardiani di tombe di non-morti, pronti tanto a guidarci al cuore dell’esperienza estetica, come a dirottarci qualora giungiamo dotati di domande indiscrete, troppo dirette, o troppo diurne per i vampiri dell’arte.



[1] Neti neti è una formula induista, appartenente all’Upanishad, “né questo né quello”, a indicare che Brahman, l’essenza spirituale su cui si fonda l’esistente è al di là di qualunque definizione. 
[2] Cfr.  S. Agostino, Sermone 52
(Latino) « Quid ergo dicamus, fratres, de Deo? Si enim quod vis dicere, si cepisti, non est Deus: si comprehendere potuisti, aliud pro Deo comprehendisti. Si quasi comprehendere potuisti, cogitatione tua te decepisti. Hoc ergo non est, si comprehendisti: si autem hoc est, non comprehendisti. Quid ergo vis loqui, quod comprehendere non potuisti?»       
(Italiano)« Cosa potremo dunque dire di Dio? Poiché se tu dichiari di poterne dare una definizione, quella non sarebbe la definizione di Dio. Se tu dichiari di aver compreso cosa Dio sia, ciò significa che tu hai compreso qualcosa di diverso e che non è Dio. Se tu dichiari di averlo compreso con il pensiero, ciò significa che con tale pensiero hai voluto ingannarti. Ciò, quindi, non è Dio, se dichiari di averlo compreso. E se lo è, allora non puoi averlo davvero compreso. Perché dunque vuoi parlare di ciò che non hai potuto comprendere? »
[3] Cfr. Perniola, M., Einaudi, Torino 2000
[4] Cfr. Foucault, M., Il pensiero del Fuori, ediz. SE, 2008, Milano
[5] Cfr. Perniola M., L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino, 200, pag. 81
[6] Cfr.  Mirolla, M., e Zucconi, G., Arte del ‘900, 1945-2001, Mondadori, 2002
[7] Il testo L’arte e la sua Ombra è stato pubblicato nel 2000
[8] riferimento a Foucault è mio e non di Perniola, dal momento che Foucault non è mai menzionato  in quest’opera e nessun riferimento bibliografico vi viene riportato.
[9] In italiano la parola criptico ha un senso lato:
criptico: [crìp-ti-co] aggettivo (pl. crìptici) misterioso, dal significato nascosto: Esempio: una frase criptica Sinonimi: oscuro. cfr. http://www.wordreference.com/definizione/criptico
[10] Crf.  N. Abraham e M. Torok, La scorza e il nocciolo, Borla, Roma 1993 e Freud, S., Lutto e malinconia, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1967
[11] Cfr. Romeo Lucioni - L’identificazione, http://www.adhikara.com/edizioni-hualfin/volume-1-2/identifi.pdf
[12] Cfr. Sarantis Thanopolus (Psicoanalista AFT S.P.I, I.P.A.), La matrice transgenerazionale del disagio psichico,
Conferenza Di Presentazione Della Associazione Psicopatologie Contemporanee “Il Corpo Specchio”, Verona 21 Aprile 2012   http://www.fidadisturbialimentari.com/corpospecchio/senza-categoria/la-matrice-transgenerazionale-del-disagio-psichico/
[13] Sulla scia di Gadamer e dell’ermeneutica ritengo impossibile prescindere da un articolato apparato che costella la precomprensione con cui ci si avvicina al fenomeno ( Cfr. Gadamer, Verità e metodo)
[14] La Carboneria è stata una società segreta italiana fondata a Napoli durante i primi anni dell’Ottocento su valori patriottici e liberali. Le riunioni dei gruppi avvenivano in sotterranei e ambienti oscuri.